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Monday, 29 April 2024
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        Trionfi e follia dell'antirelativismo 

 

 

I guasti dell’intolleranza

Gli atti di violenza contro le minoranze cristiane si moltiplicano senza tregua in vari paesi del mondo, e in modo particolare in quelli dell’area islamica.

Tali gesti barbarici sollevano un coro unanime di indignate proteste nel mondo cristiano. Atto dovuto, si potrebbe dire. Ma in prima fila tra coloro che si stracciano le vesti vi è chi di fronte a simili episodi dovrebbe invece fare almeno una piccola riflessione, per non dire una palinodia.

Benedetto XVI, in altre parole, non può non vedere che se gli autori dei vari attentati fossero “relativisti” non farebbero mai quel che fanno. Il loro agire è in effetti una clamorosa riaffermazione di quello che si può senz’altro definire “antirelativismo”, ossia convinzione assoluta di possedere la verità circa le realtà ultime dell’uomo e del mondo.

Come abbiamo scritto in “Relativismo”, con tale termine si deve correttamente intendere l’atteggiamento di chi ritiene che nei campi in cui non è possibile addurre prove razionali e/o sperimentali (e tra questi la religione è ovviamente al primo posto) non si può parlare di verità, ma semplicemente di opinioni, di convincimenti, sia pur quanto si voglia radicati e profondi. Perciò, di fronte a convinzioni - ossia a “fedi” - diverse, anche ammesso che tra di esse ve ne sia una vera, è impossibile dire quale sia.

Tale atteggiamento - suggerito dal più elementare buon senso, senza che si debbano scomodare astrusi principi epistemologici - è però fieramente avversato dai più convinti credenti delle varie religioni. Per costoro infatti la verità esiste, eccome; ed è superfluo dire che per ciascuno essa è rappresentata dai dogmi della propria fede.

Sicché, di fatto, è come se il cristiano dicesse al musulmano che ciò che questi considera un prezioso patrimonio di sacre verità è invece radicalmente falso, e che i cristiani hanno l’imprescindibile dovere di cercar di convincere lui e chi la pensa come lui ad abbracciare la loro fede, che è la sola vera. Il musulmano naturalmente ha una convinzione speculare: per lui falso è il cristianesimo, e l’islam ha il diritto-dovere di conquistare il mondo.

A questo punto, se uno dei due è portato ad usare le maniere forti, è inevitabile che cerchi di rompere la testa al suo fervente contraddittore.

 

      È incredibile che il pontefice non si renda conto che la sua crociata contro quello che egli definisce “relativismo” contribuisce oggettivamente, sia pure in modo indiretto, allo scatenamento della follia, perché è essa stessa intrinsecamente follia. Chi semina vento, raccoglie tempesta.

 

 

 Violenza fisica e violenza spirituale

 

Certo, Ratzinger può obiettare che i cristiani di regola non ricorrono alla violenza, ma la subiscono. Noi però abbiamo definito la fede cristiana, con particolare riferimento al cattolicesimo, “intolleranza non violenta”, con ovvia allusione alla violenza fisica. Ora, per quanto si voglia insistere sulla specificazione che qualifica “non violenta” l’intolleranza cristiana, è indubbio che la radice prima di ogni male, di ogni conflitto più o meno sanguinoso, sta nell’intolleranza stessa.

 

Giova ripetere: chi, senza poter addurre altra prova se non la propria insindacabile fede, si proclama depositario esclusivo delle verità ultime sull’uomo e sul mondo, affermando di doverle comunicare a tutti gli uomini perché le accettino, compie inconfutabilmente un atto di arroganza, di prevaricazione e di provocazione. Che qualcuno non accetti supinamente e reagisca con la violenza anche fisica fa parte delle regole del gioco.

Del resto, la Bibbia contiene innumerevoli passi in cui la violenza contro gli infedeli - violenza fisica nel senso più pieno del termine - viene addirittura imposta da Dio; né la Chiesa ha mai pensato di espungere tali passi dal sacro testo. E il più santo dei profeti del Signore, Elia, non esita a sgozzare di proprio pugno, uno dopo l'altro, ben 450 (quattrocentocinquanta!) “profeti di Baal”.

Con simili referenze, il cristianesimo non può vantare titoli validi per stigmatizzare la brutale violenza islamica o indù.

 

È vero che Gesù alternava alle manifestazioni di intolleranza affermazioni e atteggiamenti di straordinaria mitezza, confacenti al suo ruolo di agnello sacrificale, e col monito di porgere l’altra guancia giungeva a predicare il ripudio della violenza fisica.

Ma se, come egli proclamava,“chi non crederà sarà condannato” (Mc  16, 16), l’annuncio evangelico è oggettivamente violento: coarta, mediante un vero e proprio ricatto, la libertà di pensiero e di coscienza.

Nello stesso Benedetto XVI abbiamo un esempio di straordinaria mitezza di atteggiamenti (a cominciare dalla voce e dall’intonazione suadente dell’eloquio) associata a un’assoluta intolleranza sul piano dottrinale, quale risulta ad esempio dalla “Dominus Jesus”.

 

Definendo dunque il cristianesimo “intolleranza non violenta”, noi ci riferiamo unicamente alla forma di violenza più grossolana e vistosa, quella fisica. Ma l’intolleranza costituisce sempre, di per sé, una violenza, quanto meno psicologica.

 

 

La mistica della pace

 

Nel suo discorso del 10 gennaio 2011 ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il papa ha affermato che da parte del mondo laico “si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante”.

Non possiamo dargli torto. Senonché tale atteggiamento, a suo giudizio immotivato, è in realtà pienamente legittimo. In effetti, la religione è oggettivamente causa di destabilizzazione: o perché vuole imporre la propria legge a quella dello stato (è il caso della sharia islamica) o perché, quando debba confrontarsi con altre confessioni, diviene quasi inevitabilmente fonte di conflitti più o meno violenti.

 

Altra affermazione del pontefice, nella stessa occasione: “La venerazione nei riguardi di Dio promuove la fraternità e l’amore, non l’odio e la divisione.”

Non è vero. Ce lo dicono nel modo più esplicito le parole di Gesù stesso: “Non pensate che io sia venuto a metter pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada; con la seguente precisazione, a scanso di equivoci: “sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua” (Mt 10, 34-36).

 

Di fatto, il cristianesimo stesso è religione di pace solo quando si sia affermato senza contrasti come unica religione di un popolo; ma quando deve conquistare popoli d’altra osservanza (e questo è proprio il caso al quale si riferiva Gesù, il cui kérygma era destinato a imporsi a popolazioni pagane), diventa per forza di cose fonte di divisione e di odio. Il missionarismo cristiano, ossia l’imprescindibile esigenza di portare la presunta “verità” a tutto il mondo, non può che produrre simili conseguenze.

 

 

La mistica del martirio

 

La veemente denuncia degli atti di violenza è solitamente accompagnata, da parte cristiano-cattolica, dalla “santificazione” delle vittime in quanto màrtiri caduti per la causa della fede. La persecuzione viene cioè automaticamente etichettata come martirio; e, si sa, sanguis martyrum semen christianorum. Si citano con malcelato compiacimento le parole di Gesù: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”.

L’autogratificazione del martirio tocca il culmine nella certezza - che è di fede - che alla fine del mondo la Chiesa, prima di entrare nella gloria celeste, rivivrà la passione di Cristo.

 

Questo porta in primo luogo a dimenticare che Gesù non fu un innocente ingiustamente perseguitato: fu messo a morte perché blasfemo, ossia proprio perché aveva mortalmente offeso la “chiesa” di quel Dio di cui egli aveva l’incredibile ardire di proclamarsi figlio, sentenziando per di più: “Io sono la via, la verità, la vita”. Atteggiamento, come ben si vede, schiettamente intollerante, proprio di chi non ha il minimo dubbio di possedere la verità nella sua pienezza.

 

In secondo luogo, è quanto mai discutibile che si definisca martire chi non ha volutamente  affrontato la morte per “testimoniare” la verità della propria fede, ma ha semplicemente subito una brutale violenza in quanto appartenente a una determinata confessione. Martire a pieno titolo può essere definito solo chi, come il pakistano Shahbaz Bhatti, affronta consapevolmente un altissimo rischio di perdere la vita a causa della propria azione in difesa della fede.

Ancor meno giustificato poi è rifiutare la qualifica di màrtiri, ad esempio, ai kamikaze islamici, ironizzando per di più sulla propaganda che definendoli tali li proclama destinati al paradiso. È fuori discussione infatti che il kamikaze dà volontariamente la vita per la causa della propria fede; è quindi testimone - ossia martire - nel senso pieno del termine.

 

È fin troppo facile dire che un simile comportamento è aberrante, in quanto il martirio viene conseguito a prezzo di tante vite innocenti. Tale giudizio è pienamente lecito – anzi, sacrosanto - in una prospettiva laica, “relativistica”, che qualifica come fanatismo le conseguenze pratiche dell’intolleranza religiosa, individuando nell’intolleranza stessa la radice prima dell’aberrazione.

Ma non è lecito da parte di chi rifiuta nel modo più assoluto di relativizzare la propria pretesa di detenere il monopolio della verità; da parte di chi, soprattutto, mentre sbandiera il comandamento dell’amore, finge di ignorare la presenza nel proprio libro sacro, come si è detto, di innumerevoli passi in cui viene ordinata la soppressione fisica di chiunque – dal nemico straniero al più stretto parente – cerchi di indirizzare il fedele verso il culto di un altro Dio.

“Non è lecito uccidere in nome di Dio”, predica continuamente Benedetto XVI. Ma nella Bibbia si comanda la soppressione dell’apostata e si fa l’apologia delle guerre di Yahweh, cui compete ufficialmente il titolo di “Dio degli eserciti”.

 

Non sembrino fuori luogo questi continui richiami al testo biblico: si pensi alla pignoleria con cui il pontefice nella lectio di Ratisbona ha provveduto a rivedere le bucce al Corano esaminando le disposizioni contenute in determinate sure e giungendo persino a distinguere tra sure più o meno tarde.

 

 

Libertà di religione come libertà di bestemmia

 

Torniamo a considerare quanto abbiamo detto or ora circa l’incompatibilità tra affermazioni qualificanti di fedi profondamente diverse quali sono appunto il credo cristiano e quello islamico.

È inoppugnabile che, se quello che credo io cristiano è il vero, quel che credi tu musulmano è falso, e viceversa. E se tu proclami le tue verità e addirittura cerchi di indurre i miei fratelli di fede ad accettarle come tali, di fatto pronunci una orribile bestemmia contro il mio Dio.

La legge contro la blasfemia vigente ad esempio in Pakistan - legge che alcuni spiriti illuminati cercano, finora con scarso successo, di far abrogare - è quindi  oggettivamente conforme alla ragione, in quanto pienamente coerente con la dottrina islamica. 

Lo stesso discorso si può fare, specularmente, per quei fondamentalisti protestanti che – irresponsabilmente ma coerentemente – bruciano in pubblico copie del Corano, in cui a giusto titolo vedono un concentrato di bestemmie.

 

In effetti, quando ci si trova di fronte alla plateale blasfemia costituita dalla pubblica professione di una fede che nega i sacri dogmi della propria, la scelta di non reagire, qualora non sia suggerita dalla paura, non è altro, per chiamare le cose col loro nome, che atto di somma ipocrisia: per amore del quieto vivere si finge di non aver sentito e ci si tappa le orecchie per continuare a non sentire.

Orbene, questo, secondo Benedetto XVI, è proprio quello che dovrebbero fare cristiani e musulmani nei paesi in cui si trovano a confrontarsi; e s’intende che il discorso vale per tutte le altre religioni che vengano a trovarsi in conflitto. Il che significa che, non potendosi parlare di pace, come si è visto, si punta su una sorta di tregua armata permanente 


     Ovviamente, chi non crede può solo augurarsi che tale tregua “tenga” in tutti i casi e per un tempo indefinito; ma se ci si pone nella prospettiva del credente è impossibile non avvertire la contraddizione di fondo che sta alla base di un simile atteggiamento: rivendicare la libertà di religione equivale di fatto a rivendicare la libertà di bestemmia.

Se poi proprio non vogliamo parlare di bestemmia, parliamo comunque di offesa: nessuno può negare che proclamare l’assoluta verità delle proprie convinzioni religiose in faccia a chi ha convinzioni radicalmente diverse - che vengono per ciò stesso dichiarate false - sia obiettivamente oltremodo offensivo.

 

 

Diritto di conversione come diritto di apostasia

 

La libertà religiosa che Benedetto XVI invoca, proclamandola valore non negoziabile, si sostanzia di vari elementi. Ad esempio, padre Bernardo Cervellera, l’autorevole direttore di “Asia News”, vi include:

 

1) la libertà di credere le verità della propria fede (e quindi, tra l’altro, di disporre liberamente dei testi che le contengono);

2) la libertà di praticare la propria religione, ossia la libertà di culto;

3) la libertà di proclamare apertamente il proprio verbo, a cui si affianca il diritto di associazione in vista di tale obiettivo;

4) il diritto di convertire al proprio credo appartenenti ad altre confessioni.

 

Giusto. Senonché il diritto di convertire equivale, in prospettiva speculare, al diritto di convertirsi, abbandonando la propria fede; in altri termini, al diritto di apostasia.

Ora, nei primi secoli cristiani l’apostasia era considerata nientemeno che il massimo dei peccati, più grave ancora dell’omicidio e dell’adulterio. Si resta quindi a dir poco sconcertati: quello che era il massimo peccato concepibile è diventato addirittura un sacrosanto diritto, elemento irrinunciabile della libertà religiosa!

 

Questo dà l’idea della profondità dell’influsso che la maturazione delle coscienze prodotta dalla cultura laica della tolleranza ha esercitato sulla dottrina stessa della Chiesa. Il papa ci rifletta e ne tragga le debite conclusioni.

 

 

Il ripiegamento su Assisi

 

A un certo punto comunque Benedetto XVI, di fronte al moltiplicarsi degli episodi di violenza anticristiana, e rendendosi forse conto di aver gettato benzina sul fuoco con l’improvvido discorso di Ratisbona, si è spaventato veramente; sicché ha deciso di fare quello che negli anni precedenti aveva sempre accuratamente evitato: ha annunciato, dopo l’Angelus del Capodanno 2011, di voler partecipare all’annuale incontro di preghiera per la pace che vede riuniti ad Assisi esponenti delle varie religioni.

Nel 1986 Giovanni Paolo II aveva preso l’iniziativa del primo di questi incontri (continuati negli anni successivi ad opera della Comunità di Sant’Egidio), partecipandovi di persona. Ciò aveva suscitato all’interno della Chiesa una quantità di critiche; e Ratzinger stesso non ha mai fatto mistero della sua scarsissima simpatia per eventi di questo genere.

 

Scrive Sandro Magister:
    

“In effetti, nel 1986, l'allora cardinale Joseph Ratzinger non si recò a quel primo incontro, contro il quale era critico. Partecipò invece a una sua replica tenuta sempre ad Assisi il 24 gennaio 2002, alla quale aderì "in extremis" dopo essersi assicurato che gli equivoci dell'incontro precedente non si ripetessero.
      L'equivoco principale alimentato dall'incontro di Assisi del 1986 è stato quello di equiparare le religioni come sorgenti di salvezza per l'umanità. Contro questo equivoco la Congregazione per la dottrina della fede emanò nel 2000 la dichiarazione "Dominus Iesus", per riaffermare che ogni uomo non ha altro salvatore che Gesù.”

 

Sta di fatto che, appena dieci giorni dopo l’annuncio pontificio, un gruppo di nove intellettuali cattolici militanti e di irreprensibile ortodossia, evidentemente a loro volta spaventati non meno del papa stesso, gli hanno scritto una lettera per indurlo nientemeno che a un ripensamento.

I firmatari in sostanza affermano che qualunque cosa Benedetto XVI dica o faccia ad Assisi, i media  distorceranno il suo messaggio. Prendersela con la disonestà dei media ovviamente è l’unico modo possibile per dire, senza offendere direttamente il Papa, che da Assisi uscirà inevitabilmente un messaggio di relativismo religioso.

 

È questo infatti l’unico senso che può avere un incontro degli esponenti delle varie religioni per pregare assieme. Alla base vi è ovviamente l’idea che in questo modo si abbia più forza per indurre Dio a concedere la pace; ciò a sua volta implica che sotto le varie forme con cui lo si prega vi sia un unico Dio. Ma questo è decisamente negato dalla Chiesa (così come da musulmani e da ebrei, ad esempio). Bisogna pertanto pensare che uno di questi “dèi” sia vero e gli altri falsi; ma qual è quello vero?

Per ognuno il proprio, ovviamente. Ma non è ipocrita allora starsene a guardare gli altri che pregano degli idoli? Situazione grottesca, che richiama quella dei profeti di Baal che sul Carmelo invocano a gran voce il loro Dio senza che nulla accada.

Tutto si rivela per quello che realmente è: una gigantesca commedia.

 

Una conclusione s’impone: se da ogni incontro di preghiera tra gli esponenti di spicco delle principali religioni mondiali esce per forza di cose un messaggio di relativismo, ciò è dovuto al fatto che quest’ultimo  è l’unico atteggiamento sensato di fronte a opposte pretese di detenere il monopolio della verità.

Il relativismo, in altre parole, è nelle cose: dipende solo in parte dal modo in cui simili manifestazioni vengono gestite. Indipendentemente dal modo in cui i media presentino l’evento - e quindi anche nell’ipotesi di un’assoluta obiettività, neutralità, onestà dell’informazione -, per il grande pubblico non può che aversi un rafforzamento inconscio delle naturali propensioni relativistiche.

Il che equivale a dire che si porta acqua al mulino della secolarizzazione. Tra le  cause di quest’ultima infatti vanno senz’altro annoverati la convivenza e il conseguente quotidiano confronto di culture e religioni diverse, ciascuna delle quali ovviamente diviene sempre meno credibile nella sua pretesa di possedere in esclusiva la rivelazione dell’unico vero Dio.

 

Ogni prospettiva e ogni atteggiamento antirelativista è dunque, intrinsecamente, follia indifendibile. I nove firmatari della petizione non rivelano niente di nuovo: semplicemente chiedono che tale follia non sia posta sotto gli occhi di tutti, per di più con una spettacolarità mediatica straordinaria.

Dicono in sostanza che occorre tenere il più possibile nascosta l’ipocrisia di fondo che regola i rapporti tra fedi diversissime, ognuna delle quali rivendicante il monopolio della verità assoluta.

La commedia deve continuare a svolgersi a sipario chiuso.

   

 

Incoerenza

 

Da quanto abbiamo detto sin qui ci pare che emerga chiaramente una conclusione. La strategia di Benedetto XVI si può riassumere nei seguenti termini: antirelativismo – ossia intransigenza, dogmatismo, intolleranza – sul  piano dottrinale;  relativismo – e pertanto rivendicazione della libertà religiosa, il che significa tolleranza – sul piano pratico.

Detto in altre parole: mentre antirelativismo equivale a intolleranza, il relativismo implica tolleranza, e quindi libertà religiosa; ora, il papa, nemico dichiarato del relativismo, rivendica ciononostante la libertà religiosa (e quindi in pratica, come abbiamo visto, la libertà di bestemmia e il diritto di apostasia).

Potremmo parlare di relativismo demonizzato a parole ma di fatto commerciato sottobanco.

 

Siamo dunque di fronte a una sfacciata incoerenza, che nessuna capriola dialettica può riuscire a nascondere. Al fondo vi è la chiara percezione, da parte del pontefice, che per i cristiani in molti paesi la coerenza significherebbe, per mille motivi (dalla condizione di minoranza religiosa alla minor propensione alla violenza), una vera e propria carneficina.

Perché è tragico ma inoppugnabile: gli episodi di intolleranza religiosa, ossia i rigurgiti di violenza che mietono tante vittime cristiane, non sono altro che sussulti di coerenza; di quella stessa implacabile coerenza che muoveva la mano di Elia impegnato a sgozzare sul Carmelo i 450 profeti di Baal.

Sono trionfi della follia antirelativista.      

 

 

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